#9 Qui a Parigi non si trovano quaderni neri
Ciao, questo è il nono numero di Prove Tecniche di Trasmissione e Parigi è usata solo come specchietto per le allodole
Ciao tu. Come stai? Io un po’ così, sempre nella fase lento bollore della mia vita. Qualche tempo fa ti parlavo della pazienza che sto sperimentando in questo periodo. Lo sono molto, con gli altri, lo sono molto meno con me stessa: faccio tutto di corsa e in modalità buona la prima. Invece ora sto vivendo in una CrockPot: ne hai mai usata una? Sono una roba fantastica se devi fare i brasati o il ragù. Metti tutto dentro, imposti temperatura e timer e te ne scordi. Le prime volte non mi fidavo, però, e la sorvegliavo. Non c’è niente di più noioso di vedere la condensa che si forma su un coperchio di vetro. Spero solo che il ragù che verrà fuori sia eccezionale.
Il Libro di febbraio Quaderno proibito, Alba de Céspedes, Mondadori
C’è stato un periodo molto felice della mia vita, gli anni della borsa di collaborazione all’università. Siccome nel paleozoico, quando io studiavo alla Sapienza, il mio dipartimento non aveva una biblioteca, noi vincitori del dipartimento di Spettacolo venimmo prestati a quella del dipartimento di italianistica. Io inizialmente non ne avevo mezza voglia. Per me, abituata al caos delle aule autogestite e alla mai troppo rimpianta biblioteca comunale di via Marmorata (una via di mezzo tra un ospedale psichiatrico e una casa del popolo) significava lavorare nella cosa più simile a un campo di lavoro nazista che potevo incontrare all’inizio del millennio: era un posto silenzioso, dove libri a scaffale in libera consultazione ce n’erano pochissimi, per entrare dovevi lasciare un documento e non potevi portare libri tuoi (e neanche una bottiglia d’acqua). Quando mi chiamarono per dirmi dove sarei finita stavo guardando Italia-Corea insieme a un gruppo di miei amici in una casa a San Lorenzo. Erano i Mondiali del 2002 e passai mezza partita sul ballatoio di quella casa sconosciuta a parlare con una tipa della segreteria che sembrava mi stesse dando la sòla della vita. Cominciai qualche giorno dopo, dovevo andare negli Stati Uniti e quei soldi mi servivano per forza.
Quella esperienza fu uno dei momenti svolta della mia vita: ho amato ogni ora passata lì dentro, ho pensato che fare la bibliotecaria era la prima opzione reale di lavoro venuta fuori dalla facoltà di lettere, ho conosciuto gente magnifica, ma soprattutto è cambiato il mio approccio alla lettura e allo studio dei libri.
Prima leggere era un hobby, un riempitivo, non pensavo che potesse diventare una materia di studio. La letteratura era il Pastor Fido, nella migliore ipotesi Ungaretti, mica i romanzi che leggevo. Quelli al massimo servivano per un complicato e infinito gioco di posizionamento sociale e relazionale. Un appuntamento da Feltrinelli raccontava molte cose di una persona, ma nessuna di loro avrebbe ritenuto sensato studiare i libri che leggevano. “Seriamente, che lavoro vuoi fare?” era una delle domande che mi veniva posta più spesso, in quegli anni lì e io ho sempre fatto fatica a rispondere. La gloriosa Biblioteca Monteverdi invece mi aveva fatto intravedere una prospettiva diversa e mi aveva nutrito con il suo monumentale catalogo.
Alba de Céspedes è una scoperta di quel periodo. In un tempo in cui era uscita da poco l’edizione postuma dell’Arte della Gioia di Goliarda Sapienza e il canone femminile della letteratura italiana era composto da Morante (ma non la Storia, la Storia no, per carità di Dio) e da Ginzburg (ma più per il suo lavoro dentro Einaudi che per quello che aveva scritto) ho iniziato ad appassionarmi alle autrici misconosciute che mi capitavano per le mani. Ho letto questo libro ventidue anni fa, non mi ricordavo praticamente nulla se non che era un diario e che mi era piaciuto molto.
Me lo sono ritrovato davanti alla presentazione di un libro di cui credo che parlerò nella prossima uscita, in una nuova edizione tascabile e non sono riuscita a resistere all’impulso di comprarlo. L’ho letto immediatamente, incurante della pila mostruosa che si è creata sul comodino.
Questo libro è uscito a puntate nel 1951, l’anno dell’alluvione del Polesine e del primo Festival di Sanremo, una decina di anni prima delle traduzioni italiane di Una stanza tutta per sé e del Secondo Sesso ed è come se contenesse buona parte delle loro riflessioni in forma di romanzo. Si parla della stanchezza del lavoro di cura, del doppio ruolo all’interno della famiglia (in un periodo in cui raramente le donne lavoravano fuori casa dopo essersi sposate). Ma anche di morale: la protagonista è una cattolica non troppo devota che si preoccupa dell’onore della figlia ventenne e della sua relazione con un uomo sposato, ma che non avrebbe problemi a viversi un adulterio, quando gliene capita la possibilità.
Mi chiedo come mai Alba de Céspedes non sia mai diventata una madre nobile del femminismo italiano, perché non sia stata valorizzata per la sua modernità dai dipartimenti di italianistica e perché per avere nuovamente un suo romanzo in edizione tascabile abbiamo dovuto aspettare più di 70 anni dalla prima edizione. Per ora ringrazio Elena Ferrante, che viene influenzata tantissimo da de Céspedes, per averla citata nella Frantumaglia. Probabilmente senza questo accenno avremmo potuto incontrare la storia di quel quaderno nero solo in biblioteca.
Il podcast di febbraio Paolo Conte-il maestro è nell’anima
Non amo le canzoni d’amore quelle tutte stenti e patimenti. Se venissero degli alieni e mi chiedessero di parlare d’amore probabilmente gli farei sentire Gelato al limon e gli direi che è tutto lì, libertà, perline colorate e sensualità delle vite disperate (senza dimenticare la valigia di perplessità). Non dovrebbe essere un concetto difficile o sofferente, ma immaginifico. Giulia Cavaliere, di cui sono molto fan, ha fatto un bellissimo lavoro sulle canzoni di Conte; ne ha scelte sette e le ha analizzate con degli ospiti musicali e con Beatrice Cristalli, studiosa della lingua italiana. Conte è nello stesso tempo classico e di rottura, internazionale e strapaesano, un minimo comune denominatore che sfugge a ogni etichetta e sentire la voce di musicisti così diversi, per formazione, generazione e tipo di musica, parlare con emozione e entusiasmo della loro esperienza delle canzoni di Conte è un’esperienza notevole, perché ogni voce mette una sua tessera a questo mosaico. La produzione è Chora Media e lo trovate gratuitamente nelle vostre app di ascolto.
Ci sentiamo verso il 15 con Spalmare per fermare il declino. E magari a mArzo riprendo pure col Giro de Peppe, hai visto mai.
Che piacere leggerti.
Grazie, che bello il podcast su Paolo Conte!!!